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1994: la tragedia di Andrés Escobar ai mondiali USA

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Credits: Getty Images

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«Un grande abbraccio a tutti e per dirvi che è stata un'opportunità e un'esperienza fenomenale, rara, che non avevo mai provato in vita mia. A presto, perché la vita non finisce qui.»

Leggere le parole della lettera scritta da Andrés Escobar sulle pagine de “El Tiempo”, dopo la disfatta al mondiale USA ’94, sembra quantomai foriero di avvenimenti che nessuno avrebbe potuto immaginare. Nessuno sapeva ancora che quella notte di luglio sarebbe costata cara non solo alla squadra colombiana, ma anche all’intera Colombia, che in Andrés “El caballero de la cancha” Escobar vedeva un vero e proprio eroe nazionale. Quello del 1994 è un campionato del mondo che arriva in un momento estremamente fragile per il Paese e quell’autorete segnata al Rose Bowl di Pasadena contro i padroni di casa, scriverà il tragico epilogo per il capitano dei Cafeteros.

Alla fine degli anni ’80 il calcio colombiano era glorioso e la squadra nazionale inarrestabile: tra il ’90 ed il ’94, delle 26 partite giocate solo una terminerà in sconfitta e l’apice arriva quel 5 settembre ’93, quando a Buenos Aires la Colombia sconfigge l’Argentina con uno schiacciante 5 – 0. Un risultato così clamoroso da spingere anche la tifoseria Albiceleste ad alzarsi in una istantanea standing ovation per gli avversari. Ma se la squadra colombiana era diretta alle stelle, il Paese in sé stava seguendo una parabola completamente opposta. Il narcotraffico ed il terrorismo erano due problemi sempre più preponderanti, ed il fenomeno del Narcofutbol era noto a tutti, coinvolgendo in prima persona anche un altro Escobar, noto alle cronache per ragioni ben diverse da quelle di Andrés, sebbene a quel punto le loro storie fossero già irreversibilmente incrociate.

I signori della droga, infatti, avevano intuito come il pallone ed i finanziamenti alle squadre fossero un ottimo modo per riciclare e pulire denaro proveniente da operazioni criminali. La squadra prediletta da El Patròn era l’Atlético Nacional, che per tutti gli anni ’80 fu di proprietà del lord del narcotraffico riuscendo anche ad ottenere ottimi risultati in termini di palmarès, aggiudicandosi nel 1989 sia la Interamericana che la Copa Libertadores. È proprio in questa rosa che Andrés Escobar debutta a 20 anni: nonostante la sua vita non facilissima (aveva già perso la madre per una malattia) egli decise di dedicarsi completamente al suo sogno di diventare campione. Un ragazzo – come si direbbe da noi – con la testa sulle spalle che, guidato dai valori impartiti dalla sua amata mamma, diventa immediatamente uno dei protagonisti dei Verdolagas. L’allenatore della squadra all’epoca era Francisco Maturana e il resto della rosa era ricca di talenti, tra cui il portiere René Higuita, un nome che tornerà a breve in questa storia.

A questo punto la Colombia era una polveriera, ed il suo equilibrio si basava su fondamenta gettate su un enorme schema criminale. Il crimine organizzato ed il calcio si mescolano molto più di quanto non sembri possibile, e la grande ascesa di moltissime squadre è legata esclusivamente al circolare di soldi e droga. Il mondo del pallone colombiano è praticamente un’enorme lavanderia. Nonostante le immagini della grande vittoria in Argentina il castello di carte inizia a cedere: tra i grandi assenti del match il sopracitato René Higuita. Al suo posto compare Oscar Cordoba, perché quest’assenza? Perché René era finito in carcere, ufficialmente per un tentativo di mediazione in un sequestro di persona. In realtà, si sapeva benissimo dell’amicizia che legava il portiere ed il Patròn, e più di una volta Higuita era stato visto recare visita a Pablo Escobar presso La Catedral, il supercarcere lussuoso di Medellín in cui gli era stato concesso di stabilirsi per essersi costituito alle autorità dopo l’abolizione dell’estradizione nel ‘91. In ogni caso, Higuita a causa della reclusione salterà anche il mondiale negli Stati Uniti nel 1994 e chissà se un effetto farfalla legato proprio a questo momento avrebbe potuto salvare la vita di Andrés Escobar in quel 2 luglio.

Pablo Escobar muore il 2 dicembre del 1993, e da lì le cose sarebbero rapidamente deteriorate in un enorme caos. Alla sua morte, il boss lascia una scia di confusione ed anarchia: il capo non c’era più e nessuno era più in grado di tenere salde le redini di tutto. Più nessuno di cui fidarsi, nel bene e nel male.

Il mondiale insanguinato: USA 1994

Nonostante tutto, i campionati mondiali arrivano inesorabili ed il clima per la squadra colombiana è ben diverso da quello che aveva accompagnato gli anni precedenti. Maturana, Escobar e gli altri arrivano sotto pressione alla competizione, dopo un periodo decisamente critico per moltissimi dei componenti della rosa. La nazionale colombiana era stata sorteggiata nel girone insieme agli statunitensi ospitanti, alla Svizzera e alla Romania: un trio di squadre affatto proibitivo per la squadra data favorita da tutti (Pelè compreso). Tutti guardavano alla compagine con fiducia e speranza. Tutti, compresi i gruppi del Cartello di Cali – acerrimi oppositori di Pablo Escobar – che avevano piazzato ingenti somme su scommesse clandestine e incombevano come una minaccia sulle teste dei giocatori.

La prima sconfitta di quel mondiale arrivò assolutamente inaspettata contro la Romania: i cafeteros mostrarono un gioco decisamente sottotono in confronto alle performance del passato, Andrés Escobar tra l’altro era rientrato da poco dopo un infortunio ed era ancora in fase di recupero. Quella partita fu un disastro e terminò 3 – 1 in favore dei romeni grazie al contributo essenziale di Gheorghe Hagi e Florin Răducioiu. Ma l’episodio scatenante della tragedia avviene durante la partita contro gli Stati Uniti, in quel 22 giugno 1994.

Il match era stato anticipato da episodi che non lasciavano presagire niente di buono: qualche settimana prima della partita era stato sequestrato il figlio del difensore colombiano Herrera, restituito alla famiglia solo dopo il pagamento di un ingente riscatto. Un’altra tragedia segnerà la vita di Luis Herrera nello stesso periodo, perché di rientro dalla partita appena persa, il giocatore venne a sapere che il fratello era stato ucciso per le vie di Medellín. Come se la situazione non fosse abbastanza tesa, prima della partita contro gli USA le televisioni a circuito chiuso dell’albergo in cui la nazionale alloggiava furono “infiltrate” da ignoti, e invece di mostrare i classici messaggi di benvenuto rivolti a giocatori e staff, tutte le TV esibivano un messaggio chiaro e sintetico: se Maturana avesse schierato in campo Gomez, sia la sua casa che quella del CT sarebbero state fatte saltare in aria. Questo perché Gomez, in quanto fratello del vicemister, era visto di cattivo occhio e “raccomandato”. Parentele a parte – onde evitare ripercussioni – Maturana esegue l’ordine e il centrocampista rimane a guardare il match dalla panchina.

Tesi e senza più una briciola di entusiasmo, i cafeteros scendono in campo, e a pagare il prezzo più alto è proprio lo sfortunato capitano Andrés Escobar: al 35’ un errore del centrocampo nel tentativo di salvare un pallone crossato dallo statunitense Harkes, costa al difensore quello che sarà il primo ed ultimo autogol della sua carriera. La partita termina in un 2 – 1 in favore dei nordamericani ed a nulla servirà la successiva vittoria della Colombia contro gli elvetici, i superfavoriti del campionato mondiale devono tornare a casa a testa bassa e con una spada di Damocle incombente. Al rientro in patria il capitano affiderà i suoi pensieri ad una lettera consegnata al giornale El Tiempo (proprio quella delle parole che aprono questa storia), nella quale chiede scusa e si apre a quella che era “la sua gente”. Un uomo così amato e apprezzato sentiva il dovere di spiegarsi e raccontare a tutti ciò che aveva vissuto. E forse è anche un po’ a causa di questo che la sua vita fu precocemente interrotta una notte nel parcheggio di una discoteca.

Era il 1° luglio del 1994 e nonostante le insistenze di colleghi e mister Maturana per convincerlo a desistere, Escobar decise di uscire per Medellín, voleva davvero metterci la faccia. Dopo essersi fermato in un paio di bar, Andrés dà appuntamento a tutti alla discoteca Padova in cui arriverà intorno alle 22:30. Intorno alle 3:30 del mattino è visto litigare con due uomini: sono i fratelli Gallòn Henao, due personaggi da tempo legati al narcotraffico colombiano e finanziatori del gruppo paramilitare dei Pepes – un’organizzazione violenta formata da vittime dirette e non di Don Pablo Escobar. Una volta capito che la situazione non si sarebbe risolta facilmente, El Caballero decide di lasciare il locale ma viene seguito fino al parcheggio da alcuni uomini ed è proprio lì che una scarica di proiettili parte da una vettura e uccide Escobar. Vana la tempestività dei soccorsi, 6 proiettili alla schiena portano via alla Colombia il suo più grande gentiluomo, ancora oggi ricordato con riverenza, rispetto e amore: a lui è intitolata la cittadella dello sport di Belén a Medellìn. Una statua del giocatore campeggia oggi al suo interno, ad eterna memoria di un campione dentro e fuori dal campo.

Se Andrés Escobar fosse ancora vivo, avrebbe visto i suoi desideri espressi in quella lettera realizzarsi: i gruppi paramilitari e il cartello non esistono più e la Colombia odierna non è più la stessa di quei sanguinolenti anni, ma a che costo? Il narcotraffico, la criminalità e la violenza hanno troppo a lungo macchiato una nazione vittima di personaggi dannosi, che hanno consumato dall’interno una popolazione intera e i suoi equilibri. Vittime di personaggi assurdamente carismatici, i colombiani troppo a lungo hanno subito una realtà che nessuno merita di vivere, men che meno personaggi come Andrés: un gentiluomo, un atleta ed uno sportivo esemplare, oggi impresso eternamente della storia dello sport.

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